La poetica dell’ibrido di Karin Andersen (sul portale My Media, Osservatorio di cultura digitale, 2009)
La celebre mostra Post Human realizzata dal critico Jeffrey Deitch nel 1992 ha posto al centro della riflessione dell’arte contemporanea il tema di una ridefinizione identitaria dell’umano. Nel testo critico che accompagnava la mostra, con grande lungimiranza Deitch aveva sottolineato come: “L’informatica con la sua sempre più fitta realizzazione di realtà virtuale e la biotecnologia, con lo straordinario potenziale insito nell’ingegneria genetica stanno per creare un nuovo ambiente nel quale la maggior parte dei nostri convincimenti su cosa sia la realtà e soprattutto su cosa sia la vita dovranno necessariamente essere ridiscussi. La combinazione di questi due sistemi tecnologici creerà non solo nuove forme di vita e nuovi canali di comunicazione ma determinerà nuovi modi di percepire il tempo e lo spazio e condurrà addirittura a nuove strutture di pensiero”1. Sulla scia di simili riflessioni, le figure dell’ibrido e del mutante non hanno cessato di esercitare a livello estetico una potente attrazione, sollecitando innumerevoli artisti- tra i più famosi Stelarc, Orlan, Matthew Barney, Mike Kelley, Cindy Sherman, Daniel Lee – ad elaborare complesse metafore visive di uno scenario contemporaneo postumano avvertito come fluido e inquietante.
Nel panorama italiano, il lavoro di Karin Andersen in questa direzione è particolarmente interessante. Da sempre il tema dell’ibrido è al centro della sua produzione artistica, sia a livello stilistico che di poetica. Mescolando media tradizionali – fotografia, video, grafica, animazione – con tecnologie digitali di elaborazione delle immagini, l’artista ha sviluppato un suo personalissimo immaginario visivo, fatto di intrecci e di contaminazioni tra l’umano, l’animale e l’alieno.
Di origine tedesca ma bolognese d’adozione, Karin Andersen si è affermata nel mondo dell’arte soprattutto attraverso la produzione di foto digitali, in cui fantasiose creature umanoidi si muovono con grande naturalezza in spazi architettoinci, navicelle spaziali, paesaggi urbani oppure naturalistici.
Nel percorso artistico di Karin Andersen l’interesse per la fotografia emerge molto presto, verso la fine della sua formazione in Accademia, e sin da subito si traduce in sperimentazioni con tecniche miste, di intervento pittorico su stampe fotografiche: “avevo scoperto che la fotografia mi poteva dare un certo risultato che con la pittura o il disegno non potevo avere, ovvero un rapporto più immediato con il reale, però non volevo neanche rinunciare ad una dimensione più concettuale e surreale, e quindi ho cominciato a metterci le mani con la pittura”2. Il passaggio al digitale è stato un processo naturale, in quanto consentiva una maggiore possibilità di manipolare le immagini e di integrare sfondi e personaggi derivanti da contesti diversi, amplificando notevolmente le possibilità combinatorie. Il ciclo di lavori A trip to Lanimin Paloo, presentati nel 2002 in una personale a Milano presso la galleria Cannaviello, sin dal titolo allude al gioco combinatorio: “Lanimin Paloo” è anagramma di Milano e Napoli, le due città da cui sono stati prelevati i suggestivi “set” architettonici (la Galleria Vittorio Emanuele di Milano e la metropolitana Salvatore Rosa Napoli) che fanno da sfondo a volteggianti creature insettoidi, creando una dimensione spiazzante e fantascientifica. Tecnicamente questi lavori combinano elaborazioni delle immagini con photoshop con interventi pittorici ad acrilico, eseguiti dopo la stampa su tela. Progressivamente l’artista, pur non abbandonando mai completamente le pratiche pittoriche, nella realizzazione delle opere fotografiche ha sostituito la pittura con l’elaborazione digitale, divenuta sempre più sofisticata e in grado di simulare gli effetti desiderati. Nel suo libro Digital art, la studiosa di nuovi media Christiane Paul sottolinea come l’accresciuta possibilità di manipolazione delle immagini consentita dalle tecnologie digitali attivi nuovi modi di mescolarle e montarle, tendenti ad eliminare qualsiasi forma evidente di sutura: “Le tecnologie digitali aggiungono una dimensione addizionale agli assemblaggi e ai collage, poiché elementi disparati possono essere fusi più omogeneamente, focalizzandosi su una “nuova” forma di realtà simulata piuttosto che sulla giustapposizione di componenti con una distinta storia spaziale o temporale. I collages e le composizioni digitali spesso comportano uno spostamento dall’evidenziazione dei confini alla loro cancellazione”3. Questa estetica della cancellazione dei confini e della simulazione perfetta è perseguita da molti artisti che lavorano nell’ambito delle fotografie digitali, ed è evidente soprattutto in ambito pubblicitario. Ci sono tuttavia altre possibilità di intervento in cui la mescolanza tra manipolazione digitale e “tracce di reale” produce scarti, effetti dissonanti, ed è in questa direzione che si muove la sperimentazione artistica di Karin Andersen. Nelle sue foto digitali i “trucchi”, gli “effetti speciali” sono volutamente esibiti, il reale e il fantastico coesistono ma non si dissolvono mai completamente l’uno nell’altro, l’obiettivo non è il raggiungimento di una esasperata levigatezza formale, semmai quello di scompaginare in maniera ludica e irriverente le regole del gioco, secondo un’estetica per così dire “low-budget”, da “Z-movies” (termine che l’artista ha usato ironicamente come titolo di una sua personale svoltasi a San Marino nel 2006). Nella stessa direzione di contaminazioni visive che producono cortocircuiti tra reale e immaginario si inseriscono anche tutta una serie di lavori dove figure disegnate al computer con la tavolozza grafica si sovrappongono ad immagini fotografiche. Tali figure, simili a personaggi di fumetti, si presentano come sagome piatte che interagiscono con l’ambiente fotografato per assonanze coloristiche o semantiche, svelate talvolta dai titoli, che hanno sempre un ruolo importante nel lavoro di Karin Andersen, rappresentando una sorta di prolungamento linguistico delle sue pratiche ludiche-combintorie.
Di fatto, la cifra stilistica che contraddistingue l’estetica di Karin Andersen veicola un pensiero estremamente articolato sulle tematiche dell’ibrido; la sua poetica è volta a smascherare una visione rigidamente antropocentrica, che assolutizza la separazione tra umano e animale, tra natura e cultura. I suoi personaggi alieni e umanoidi non si presentano né come esseri minacciosi e distruttivi né come creature angeliche e idealizzate, ma sono raffigurati in atteggiamenti, posture e comportamenti “normali”: – leggono, dormono, passeggiano, giocano, socializzano – ribaltando in tal modo stereotipi consolidati sui concetti di alterità e diversità. L’interesse di di Karin Andersen per l’ibrido si nutre di una idiosincratica attrazione per il mondo animale e per le complesse dinamiche – istintive, inconsce, strumentali, cognitive, affettive – che l’uomo stabilisce con esso. Non a caso su queste tematiche l’artista ha scritto un interessante libro Animal Appeal. Uno studio sul teriomorfismo, assieme all’epistemologo e studioso di scienze biologiche Roberto Marchesini dove si sottolinea come l’evoluzione culturale e identitaria dell’uomo si sia sviluppata non in opposizione, ma partire da un rapporto privilegiato ed imprescindibile con l’alterità animale.
L’estetica post-human ci ha abituati alla prefigurazione di scenari apocalittici, oscillando tra i poli opposti dell’esaltazione oppure della condanna di una hybris umana potenziata da protesi tecnologiche o da manipolazioni genetiche, che sembra voler sfidare ogni senso del limite. Pur muovendosi nell’ambito di tali problematiche, da cui del resto al giorno d’oggi è impossibile prescindere, la poetica dell’ibrido di Karin Andersen sposta l’accento sulle dinamiche di scambio tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi, e su ciò che di positivo e di creativo può scaturire dal confronto con forme di alterità che in fondo fanno parte di noi e ci parlano di noi, e che ci possono aiutare ad accettare i nostri limiti di “creature imperfette”.
1 Post Human. Catalogo a cura di Jeffrey Deitch. Testo in italiano e in inglese di Jeffrey Deitch. 152 pp., illustrazioni a colori, bianco e nero. Castello di Rivoli, Torino, 1992
2 Frase riportata da una coversazione con l’artista