Teriomorfismo
(dal catalogo della mostra Teriomorfo, opere di Karin Andersen, Robert Gligorov, Daniel Lee, a cura di Luca Panaro, Betta Frigieri Arte Contemporanea, Modena, 2010)
Teriomorfo è il partner con cui l’uomo da sempre ha varcato la soglia dell’antropocentrismo interpretando il suo viaggio contro la camicia di forza dell’identità. Come un allucinogeno assunto per raggiungere un diverso stato di coscienza l’eterospecifico è stato l’alleato per proiettarsi nel mondo con altri sensi, altri organi, altre geometrie cognitive. Solo oggi si comincia veramente a comprendere il portato di questo prestito e a riflettere sulla insussistenza dell’ipotesi autarchica della cultura umana. Il significato del teriomorfismo – da therion, nel suo valore affiliativo e ibridativo – è assai diverso dal tratteggio tradizionale dove l’animale veniva letto come cifra rappresentativa per esemplificare l’umano (zoomorfo) o come “specchio oscuro”, iconografia del ferino da ricacciare nei fondali dell’essere (teromorfo). La chiave umanistica si è limitata a lasciarci in retaggio un pandemonio simbolico di animalità, nauseante galleria di stereotipi – istintivo, carnale, irrazionale, tellurico e chi più ne ha più ne metta – testimonianza di un antropocentrismo ontologico che vedeva l’animalità come controparte da cui divergere per costruire i predicati umani. Le sperimentazioni postumanistiche di Daniel Lee, Matthew Barney, Karin Andersen si discostano completamente da questo quadro e disvelano come da sempre il corpo dell’uomo e la sua dimensione culturale siano stati il palcoscenico per l’espressione del non umano. La natura autentica della proposta post human, nel suo aspetto teriomorfo, sta infatti nell’eradicare le certezze identitarie che trasudano nella visione umanistica di emancipazione angelica dell’essere umano. Capire la rivoluzione teriomorfa che parte dal rifiuto delle dicotomie, dal superamento dell’antropocentrismo, dall’ossessiva ricerca di una liminalità umana è prima di tutto saper prendere le distanze dalle vecchie cornici dello zoo e del tero-morfismo.
La zoomorfia è tradizionalmente una metafora, il suo uso è esemplificativo in modo nauseante e puntuale, serve a visualizzare caratteristiche, tendenze, vizi e virtù dell’animo umano, dove quest’ultimo rappresenta il centro di gravitazione dei contenuti di significato. Tanto nella simbologia quanto nell’uso metaforico – per esempio nelle favole di Esopo e Fedro – il carattere umano cerca una rappresentazione nel segno animale: la zoomorfia è la parola che si presta a designare, perché offre una prospettiva, e a disegnare nella sua ampia collezione di continui tonali e discrezionali. Dobbiamo quindi chiederci in primis a cosa è interessato il topos zoomorfo e dove si colloca il suo pastiche di tratteggi non-umani. Forse a capire i commerci che l’uomo ha avuto con gli altri animali, le implosioni delle diverse umwelt e le esplosioni di performatività ibride, le frattaliche inclusioni che escludono chiare definizioni di dominio? No, niente di tutto questo. L’unico nodo di interesse che ci viene dalla tradizione zoomorfa è l’uomo e i suoi caratteri, il suo milieu di sviluppo e il sostrato di radicamento è in buona sostanza l’ubriacatura occidentale per l’antropocentrismo e per gli edifici gerarchico-emarginanti con le dicotomie come mattoni, comodi espedienti giustificativi per ogni tentativo di sottomettere un ente a un altro. Operazione inversa, ma sempre nel segno della zoomorfia, è l’utilizzo del tratteggio animale come operatore di disvelamento e per approcciare gli oscuri territori del misterico. Le forme animali ancora una volta vengono evocate – si veda lo zoodiaco, l’utilizzo del doppio zoomorfo della divinità, l’ornitomanzia – per parlare dell’uomo, per creare un fossato ontologico e far emergere l’umano. E così pure nella zoofisiognomica, lettura in un certo senso oppositiva a quella simbolica tipica dell’araldica, il segno animale si presta a fini antropocentrici. Già nel 1586 Giambattista Della Porta inaugurava con il trattato De humana physiognomica un nuovo modo di interpretare le oscure tendenze dell’animo umano sulla base delle correlazioni anatomiche del soggetto verso particolari forme animali. Prendeva forma così una nutrita collezione di ritratti umani affiancati dal corrispondente animale, una sorta di araldica speculare che diverrà molto in voga nella Germania di fine XVIII secolo, entusiasmando lo stesso Goethe. Se nell’utilizzo simbolico dello zoomorfema il casato trova una esemplificazione accreditativa nel raffigurarsi come leone, orso, toro per esplicitare forza, coraggio, fierezza, nella zoofisiognomica avviene esattamente il contrario: è la somiglianza dei tratti a disvelare la tempra caratteriale, per cui una morfologia leonina indica un temperamento fiero e coraggioso come, viceversa, ricordare il profilo ovino diviene sicura testimonianza di un carattere mite e remissivo. Lo zoomorfema è una specie di lingua universale, un porto franco che consente di comunicare in modo diretto e senza fraintendimenti, nella consapevolezza che la forma animale rappresenta una elettività per l’uomo, quasi una gestalt percettiva.
Un discorso assai differente richiede l’analisi del topos teromorfo. Non vi è dubbio infatti che la cifra animale abbia avuto nel tempo anche connotazioni di cornice culturale, soprattutto nell’umanismo dove si è posta una barriera categoriale tra l’uomo e le altre specie che ha fatto dell’animalità il segno negativo per antonomasia. L’esaltazione antropocentrica del bello come puro, giovanile, immateriale, incompleto biologicamente e quindi non radicato nel tellurico ha trasformato l’animale in specchio oscuro, ricettacolo di tutte quelle lordure e zavorre da cui l’uomo si doveva distanziare per realizzare la propria dimensione. La sponda animale nel teromorfismo funge da contraltare per far emergere l’umano come ente razionale, culturale, morale, cosciente, autopoietico, libero al contrario del non umano che viene ritenuto, per dirla con Heidegger, “povero di mondo”. Nella tradizione teromorfa divenire umani significa quindi emanciparsi dalla condizione animale, che assume perciò i caratteri della cifra regressiva, pericolosa deriva di contaminazione o di involuzione alla cui soglia l’uomo non deve affacciarsi e, quando lo fa, mette a repentaglio le sue qualità distintive. La letteratura del XIX e del XX secolo si popola pertanto di mostri teromorfi, esito di hybris naturalistica o di invereconde prossimità con l’animalità, dal Mister Hyde di Stevenson al Kurtz di Conrad, fino a dar luogo a vere e proprie saghe come quelle dei licantropi o dei vampiri. Tale lettura ha influenzato anche il modo di interpretare il pensiero darwiniano, cosicché il teromorfismo è stato tradotto dagli umanisti come ancestralità, ossia riemergenza dell’animalità dai fondali della parentela comune, o come degradazione della purezza umana. Questa è la chiave concettuale che ispira la fisiognomica di Cesare Lombroso che, a differenza di Giambattista Della Porta, vede nella somiglianza animale il chiaro indizio di un’implicita tendenza criminale. La prossimità con l’animale come cifra regressiva verrà utilizzata proditoriamente per dichiarare inferiori le donne, i bambini, gli omosessuali, gli appartenenti ad altre etnie, religioni o culture, i malati, gli oppositori di regime e via dicendo. L’animalità diviene così un grande contenitore da applicare ad arte per discriminare, sottomettere, uccidere, bollare d’infamia: è ancora di uso comune utilizzare il termine “bestiale” per intendere comportamenti riprovevoli, anche quando non hanno riscontri in altre specie se non nell’uomo. Il teromorfismo è pertanto un espediente discriminativo, serve cioè a suffragare il catalogo di pregiudizi che ci portiamo dietro sui non umani, a far emergere per contrasto l’uomo come centro numinoso e speciale, a mantenere una visione autarchica dello sviluppo dei predicati umani.
Tuttavia a partire dagli anni ’90 si è verificata un’inversione di tendenza, soprattutto grazie a nuove discipline come la zooantropologia che hanno rivisitato il rapporto uomo-animale alla luce del contributo referenziale offerto dal confronto con le altre specie. Da cifra regressiva l’animalità ha assunto il ruolo di fonte di ispirazione, porto franco dove immaginare nuovi profili esistenziali attraverso il commercio e l’ibridazione. Ha contribuito a questa metamorfosi anche il viraggio postumanistico di fine secolo che ha messo in discussione i concetti di purezza, identità, essenza smascherando il bieco conservatorismo implicito nello spauracchio dell’hybris e nello stereotipo di specchio oscuro. In realtà da sempre l’uomo non solo ha saccheggiato il catalogo animale per dimensionare culturalmente il proprio profilo ma ha costruito fattivamente delle partnership con il mondo dei non-umani per realizzare nuove dimensioni dell’antroposfera. Solo per fare un esempio l’affiliazione del lupo nel gruppo umano ha determinato una metamorfosi nel processo di sviluppo dell’individuo e dell’ordinamento del gruppo perché necessariamente ha importato nuovi contributi educativi. In altri termini, dopo l’introduzione del lupo – circa 130.000 anni orsono – nei gruppi umani le nuove generazioni hanno cominciato ad apprendere non solo dai conspecifici umani ma anche dall’affiliato lupoide e così facendo hanno aperto il loro canone comportamentale acquisendo nuovi stili. La convivenza crea cioè una sorta di licantropia culturale, ossia di fusione di modelli comportamentali delle due specie, dove le acquisizioni-contaminazioni avvengono soprattutto a carico dell’uomo, vista la sua maggiore plasticità ontogenetica. L’introiezione del lupo nel gruppo umano ha pertanto modificato il rapporto dell’uomo con il territorio, dato luogo a nuove abitudini nelle relazioni sociali, potenziato l’operatività della nostra specie e la sua capacità di controllo del mondo esterno, creato nuove prassi comunicative. Le nostre proiezioni sulla licantropia, come per altre peregrinazioni sul profilo liminale del farsi animale, tutte basate sulla caduta nell’ancestrale e quindi sulla perdita dei predicati umani, sono solo il frutto del pregiudizio antropocentrico, della nostra arrogante pretesa di negare il contributo dell’alterità animale nella nostra cultura. Possiamo quindi ritenere che l’inclusione del lupo nell’ecumene ha creato il primo spazio antropologico di ibridazione, un milieu che poi sarà utilizzato da altri partner: le altre specie che in seguito saranno domesticate e, nei nostri tempi, le macchine, veri e propri animali tecnologici.
Spostare il baricentro esistenziale oltre la prospettiva antropocentrata – in altri termini al di là dell’eredità biologica ricevuta dalla filogenesi – è sempre stata la via maestra del cammino dell’uomo, un tracciato di divergenza dal retaggio innato che non ha paragoni negli altri esseri viventi. L’uomo sembra non accontentarsi dei suoi predicati naturali: rivisita il corpo attraverso ornamenti e tatuaggi, modifica la sua cinestesi attraverso esotiche coreografie motorie, utilizza strumenti per produrre sonorità differenti da quelle vocali che gli sono proprie, esternalizza le funzioni attraverso strumenti e tecniche, modifica la chimica del suo metabolismo grazie a molecole vegetali, assume forme di organizzazione sociale che non gli appartengono.
L’uomo trasforma il proprio corpo in un paesaggio da rimaneggiare e lo fa imitando le altre specie: si innesta penne sul viso, acconcia i capelli a guisa di criniera, scarifica la pelle per riprendere la squamosità del rettile, felinizza il volto intervenendo sul contorno occhi, riprende le pezzature o le zebrature dei grandi mammiferi della savana attraverso il tatuaggio, inventa la moda attraverso la pratica sciamanica di vestirsi di pelli animali, allunga il collo o le labbra attraverso strumenti per riprendere anatomie di altre specie.
Anche il movimento viene ripensato per costruire riti sociali e di corteggiamento e lo si fa osservando le coreografie di altre specie: i rituali della gru coronata informano le danze masai così come le cinestesie del gallo forcello strutturano le danze ladine. Forse nulla come il ballo testimonia questo farsi animale per adire a nuove dimensioni culturali e soprattutto per realizzare una comunicazione fàtica in grado di rappresentare l’identità, sia essa di cultura o di genere. La bellezza del movimento espresso da altre specie entra nelle figurazioni Yoga, come rappresenta la base del Kung Fu divenendo architrave di tutte le arti marziali.
La vocalizzazione umana si amplia nel desiderio di riprendere le voci degli altri animali attraverso il chioccolo, il fischio, l’assunzione di armonici e fraseggi propri di eterospecifici. Le sonorità delle culture europee riprendono le articolazioni canore dei fringillidi così come i maori riproducono le armonie dei grandi cetacei. Anche la ritmica risente del battito di molti animali: primati, cuculi, artiodattili maestri percussionisti danno all’uomo dei tempi per la concertazione motoria. I sonagli dei serpenti vengono riproposti così come il siringe degli uccelli diventa flauto e, non a caso, questo strumento è chiamato a rappresentare la dimensione panica dell’essere umano.
Anche la tecnica attinge a piene mani dalla fonte della biodiversità: dalle vespe impariamo a fabbricare la carta così come gli uccelli divengono gli ispiratori dell’arte del volo. Gli scritti di Leonardo da Vinci rappresentano in modo eclatante questo legame tra tecnopoiesi e osservazione del mondo animale ove la macchina diviene una sintesi tra il principio del sasso scheggiato e la domesticazione, non a caso parliamo di cavalli vapore. In certe situazioni lo strumento di una cultura e la presenza di un animale che usa la stessa tecnica è incontrovertibile come è il caso delle bolas. Cibernetica e bionica rappresentano le versioni moderne di un’arte antica come l’uomo.
L’essere umano trasforma l’intero laboratorio chimico del mondo vegetale in un flusso capace di permeare i suoi circuiti interni: accelerando processi metabolici, enfatizzando eventi di neuromodulazione, modificando le cascate endocrine. Eccitanti o neurolettici, disinibenti o appaganti, psichedelici o narcotici ancora una volta l’uomo non si rassegna ai tempi del suo corpo e utilizza massivamente il doping osservando le altre specie. Dagli elefanti impara l’utilizzo dei derivati alcolici della fermentazione della frutta, dalle renne la possibilità allucinogena offerta da alcuni funghi come l’Amanita muscaria, dalle capre l’effetto tonico degli alcaloidi del caffé.
Nemmeno l’organizzazione sociale è esente da questa contaminazione con l’eterospecifico e così l’uomo si ispira agli altri animali per costruire un’immagine di se stesso che il più delle volte si distanzia profondamente dal profilo etografico che lo caratterizza: sogna la fedeltà eterna dei colombi, la collaborazione totale dei lupi, il portamento fiero e impavido del leone, la diligenza e la dedizione sociale delle api e delle formiche, la precisione e l’eleganza del felino.
Questa trasformazione di prospettiva che vede nel non umano il volano di trasformazione dell’uomo e dà cittadinanza al non umano nell’antroposfera mette chiaramente in discussione i fondamenti dell’umanesimo vale a dire le idee di purezza, autarchia, misura, incompletezza, opposizione. Nella focale postumanistica l’ibrido, il mutante, il difforme hanno perduto quelle connotazioni negative o di contrasto con i predicati umani, perché come giustamente rilevato da Donna Haraway nel suo Manifesto cyborg è proprio sul confine che l’umanità si rivela. E non è un caso se la stessa Haraway svilupperà la sua ricerca sui nuovi territori del meticciamento umano-animale-macchinico, mettendo sotto scacco quelle dicotomie disgiuntive che stavano a fondamento del pensiero umanistico. Da teros la forma animale muterà in “therion” e il teriomorfismo non sarà più indicativo di regressione, involuzione, perdita bensì di antropo-poiesi ossia di realizzazione del dimensionamento culturale. Parliamo di dimensionamento e non di calco negativo o di esonero, a dimenticare Gehlen e tutta l’antropologia separativa, dove ogni proiezione è sempre un atto ospitale – nel duplice senso della tradizione classica – e quindi transitorio, transitivo, singolare, contingente, dialogico. Si apre così una nuova stagione nell’analisi della forma animale introiettata nell’essere umano: non più zoognostica esemplificazione o rivelazione del carattere né stigmatizzazione di specchio oscuro o di ancestralità, bensì atelier di futuribili profili esistenziali. Profeti di questo cambiamento possono essere considerati autori come William Burroughs e Philip Dick, non a caso entrambi ammaliati dall’animalità come campo del possibile. Il mutante si avvale della forma animale per mettere in discussione le coordinate dell’essere e distruggere l’identità per barattarla con una pluralità esistenziale fluida, prossemica e transitoria. Anche il farsi animale di Gilles Deleuze ha perduto il connotato regressivo, nei due sensi di specchio oscuro o di età dell’oro, per lasciare spazio alla rivelazione del sentire metamorfico del qui e ora – la dimensione umana come capacità di eccentrarsi nella prospettiva animale. Non vi è dubbio tuttavia che la proposta post-human che prende corpo a partire dalla mostra di Jeffrey Deitch nel 1992 segni di fatto una discontinuità nell’interpretazione del segno-partner animale. Come ho detto l’animalità ha sempre abitato l’arte e più in generale la dimensione culturale, il punto focale sta nel modo in cui l’artista percepisce e rappresenta questa relazione. Affiancare i vecchi stereotipi dicotomici, del tipo natura-cultura o istinto-ragione, per descrivere la produzione postumanistica dei mutoidi e degli ibridi teriomorfi non solo non coglie il nocciolo del cambiamento ma rischia di rafforzare i pregiudizi. Nella prospettiva umanistica l’animale è un segno o uno sfondo, è una categoria ossia il non-umano, una nostalgia o un rischio, uno scomodo coinquilino che mina la razionalità, non è un pluriverso da esplorare. Gli artisti che si affacciano nel proscenio postumanistico interiorizzano il teriomorfismo, trasformano cioè il corpo in palcoscenico per accogliere l’eterospecifico come diversa prospettiva sul mondo da esperire. È l’ospite animale, l’alien che va a ibridare le morfologie umane, l’interprete vero per questa nuova identità mutante. Non rinveniamo più la bestia come esempio o come sfondo, perché a farsi strada è l’idea di animale come alterità, come orizzonte non umano grondante di opportunità ontologiche. La bellezza ibrida esposta dagli artisti contemporanei si stacca nettamente dalle tradizioni arcadiche o romantiche di un’animalità mitica, passata, età dell’oro dove uomo e natura vivevano armonicamente sulle corde della zoomorfia e parimenti è lontana anni luce dagli stereotipi teromorfici di specchio oscuro. A fare capolino è un ibrido innocente, neo-generazionale, occasionale frutto del bricolage naturculturale, secolarizzazione del sacro biotecnologico nell’underground di un quotidiano non tanto distante nel futuro.