Simulazione Ibridata (catalogo mostra Z-Movies, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea della Repubblica San Marino, ed. Skira, 2006)
Il chirurgo ed endocrinologo Filip Filippovic Preobrazenskij decide di effettuare un esperimento su un cane randagio trovato sotto il portone di casa. Così sostituisce l’ipofisi dell’animale con una umana. Sebbene la metamorfosi non sia priva d’inconvenienti e l’esperimento sfugga di mano al professore, in breve tempo il cane assume sembianze umane, perde i peli, cammina su due zampe e inizia a parlare.
Cuore di cane, lo sconvolgente racconto dello scrittore russo Michail Bulgakov risalente al lontano 1925 (ma dovette attendere il 1967 per essere pubblicato), sembra anticipare la crisi dell’antropocentrismo che caratterizza la società contemporanea, intesa come progressiva disintegrazione dell’io.
Un sentimento di paura e d’incertezza, accompagnata da una sempre maggior sofisticazione dei mezzi tecnologici, portano alle estreme conseguenze la progressiva frantumazione dell’io a favore di un’immagine fortemente contaminata.
Com’è noto, è stato Jeffrey Deitch a imporre il post human con la celebre mostra del 1992. In quell’occasione scriveva: “L’informatica con la sua sempre più fitta realizzazione di realtà virtuali e la biotecnologia con lo straordinario potenziale insito nell’ingegneria genetica, stanno per creare un nuovo ambiente nel quale la maggior parte dei nostri convincimenti su cosa sia la realtà e soprattutto su cosa sia la vita dovranno necessariamente essere ridiscussi. La combinazione di questi due sistemi tecnologici creerà non solo nuove forme di vita e nuovi canali di comunicazione ma determinerà nuovi modi di percepire il tempo e lo spazio e condurrà addirittura a nuove strutture di pensiero”(1).
E’ passato oltre un decennio da quando quelle parole sono state pronunciate e il post human è ormai entrato a far parte del linguaggio comune. Non solo, ma rappresenta un’esperienza imprescindibile che ha portato alle estreme conseguenze una visione antiplatonica e fortemente cinica che tende a ridefinire i parametri dell’estetica, sviluppando un dialogo con la postmodernità indirizzato verso la smaterializzazione del corpo, simulacro di una sperimentazione in bilico tra bios e techne, ben lontano dall’umanesimo residuale proprio della body art.
In un clima piuttosto plumbeo, fatto di crolli e di paure, a cui corrisponde in maniera speculare un diffuso sentimento di onnipotenza da parte dell’artista creatore che si sostituisce a Dio in quanto artefice del proprio paesaggio fisico, si sviluppa una parte significativa della ricerca degli anni Novanta che, dietro alle apparenze trasgressive, spettacolari, a tratti kitsch, nasconde un malinconico sentimento di morte e una diffusa sensazione di perdita.
Del resto, già nel 1966 Michel Foucault aveva annunciato la morte dell’uomo ricordando con inquietudine come ciò che “dev’essere prodotto non è l’uomo identico a se stesso, tale e quale lo avrebbe disegnato la natura, o, secondo la sua essenza; al contrario noi dobbiamo produrre qualcosa che ancora non esiste e di cui non possiamo sapere come sarà”.
Se Deitch parte da una visione unitaria dell’io che si sottopone ad un processo di continue metamorfosi nella consapevolezza che l’uomo sia destinato alla sua ri-creazione, ben diversa è la posizione dello studioso di scienze biologiche e di epistemologia Roberto Marchesini che nel suo ponderoso volume Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza rifiuta una visione monolitica e concepisce l’ibridazione come aspetto consustanziale del sé, come allargamento prospettico di un essere che diventa parte integrante del processo collettivo. Da un lato, dunque, una visione verticistica e dall’altra l’orizzontalità di una dimensione dove i confini tra il sé e l’altro appaiono assai più sfumati. Quello individuato da Marchesini, insomma, è un essere fondamentalmente panteistico che assorbe l’aspetto tecnologico, la tecnosfera, così come quello animale, la teriosfera, o meccanico in una mutevolezza che diventa il suo aspetto caratterizzante di fronte ad una pluralità che non è più oppositiva né solipsistica. Si tratta, piuttosto di “un’attualizzazione della virtualità biologica nelle diverse vocazioni di sviluppo” (2) all’interno di una logica in cui l’alterità è una componente dell’appartenenza. A questo proposito Marchesini parla addirittura di partnership con l’universo che lo circonda: “L’animale non è più lo straniero, lo specchio oscuro da allontanare od eventualmente da epurare ma diventa il partner promotore d’identità” (3).
E’ proprio dal teriomorfismo, inteso come estensione di un io plurimo partecipe dell’animalità, che prende le mosse la ricerca di Karin Andersen che, proprio insieme a Marchesini ha scritto nel 2003 Animal Appeal. Uno studio sul teriomorfismo da cui emerge una sua precisa posizione teorica.
Di fronte ad una realtà che non accetta più la contrapposizione uomo/animale o uomo/macchina il teriomorfismo assume una posizione dialettica e consente di ripensare nella sua globalità la relazione con l’universo visivo.
Se in questo approccio il corpo umano non è più inteso come centralina biotecnologica, “la sua trasformazione non è né idealizzata né demonizzante ma è semplicemente una condizione esistenziale altra. L’uomo, una volta punto di partenza e riferimento per valutare ogni trasformazione immaginaria ha perso la sua centralità e diventa variabile nei calcoli di una realtà polimorfa” (4), afferma Karin Andersen la cui ricerca s’inserisce su un tracciato dominato dalla presenza di Matthew Barney ma contrassegnato da figure meno note, sicuramente non prive d’interesse come il sudafricano Jane Alexander o il cinese Daniel Lee.
La scelta del terimorfismo come spazio di ricerca nell’accettazione di un’alterità non esterna ma interna all’individuo, consente di uscire dalla dicotomia classica e, a dire il vero, un po’ manichea tra antropomorfizzazione dell’animale e animalizzazione dell’uomo.
Si entra, dunque, in quella zona “d’indiscernibilità e d’indecibilità tra l’uomo e l’animale” in base a quanto scrive Giles Deleuze giustamente citato da Lea Vergine (5) nel bel saggio che introduce una mostra emblematica su questo argomento Il bello e la bestia. Metamorfosi, artifici e ibridi dal mito all’immaginario scientifico organizzata nel 2004 dal Mart di Rovereto che, chissà per quale ragione, non comprendeva la ricerca di Karin Andersen, un’artista che su questo argomento ha una posizione rigorosa e chiaramente delineata.
La sua recente indagine, che viene presentata in maniera esaustiva alla Galleria d’Arte Moderna di San Marino, rappresenta, per certi versi, una sorpresa per chi era abituato ad identificare l’artista tedesca ma italiana d’adozione (si è trasferita a Bologna nel 1986) con i futuribili “insettoidi”, strane contaminazioni in bilico tra umano e animale, che andavano ad occupare spazi imprevisti come la Galleria Vittorio Emanuele di Milano o la metropolitana di Napoli. Si trattava, in quella circostanza, di corpi estranei che s’intrufolavano nel reale come vere e proprie interferenze; lavori sapienti dove l’elemento pittorico si contaminava con quello digitale, ma ancora connotati da una valenza narrativa, dal momento che l’intruso galleggiava nel contesto architettonico senza, tuttavia, modificarlo.
In ogni modo, già in occasione di una mostra allo Studio Cannaviello di Milano nel 2002 su questo ciclo di opere, Marchesini in catalogo, rilevava come quegli insettoidi avessero la capacità di ricavarsi una nicchia nella nostra quotidianità come se una parte di noi ne fosse coinvolto:. “E’ un aspetto centrale della poetica postumanistica questa perdita di radicamento che tuttavia dà come filiazione pluriversi esistenziali che si intersecano e quindi diventano completamento l’uno dell’altro, non più catalogo di mondi possibili in tutto e per tutto separati” (6). Passano poc più di due anni e nei recenti lavori dell’artista si ha la sensazione che il mutante abbia contagiato il paesaggio che lo circonda tanto da creare un unico spazio dove tutto appare assolutamente normale nella sua apparente anormalità in un trascinamento della fantasia verso il reale.
“La dimensione della fiaba per me ha qualcosa di clasutrofobico, è come vivere in una bolla di sapone. La realtà, invece, è fin troppo convenzionale. Mi piacerebbe far scoppiare la bolla di sapone” (7), spiega Karin Andersen che, attraverso la logica paradossale del suo lavoro, investe l’universo di una nuova forza utopica dov’è possibile ancora provare stupore.
In questo senso l’artista non ha nulla a che fare con il post human, almeno nel senso in cui questo termine va ad identificare il naufragio del corpo e il suo ossessivo processo di ricostruzione tecnologica e autoreferenziale.
Questa sorta di perfido onanismo non le appartiene e la sua opera viaggia nella stratosfera baluginante della fantasia naturalizzando l’artificiale, tanto da creare un senso progressivo d’incertezza percettiva.
I suoi personaggi ibridati con le lunghe orecchie e la pelle leopardata dove ogni tanto spunta la coda, appaiono perfettamente a loro agio tra i mouse del computer trasformati in topolini, all’interno di navicelle spaziali con i pulsanti della cabina di comando che sono, in realtà, caramelle colorate o appostati accanto ad una banale stirella che si trasforma in una complessa centralina elettronica.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un alto grado di falsificazione esibita, come se l’artista desiderasse scoprire le carte mettendo in scena la messa in scena in un processo metartistico.
Di fronte alla sofisticatissima artificialità mediatica ipertecnologica che ha creato un perenne processo di smaterializzazione e di svuotamento, Karin Andersen rifiuta l’uso degli effetti speciali (e, non caso, in questo caso il titolo della mostra fa riferimento ai B-movies, i film di ultima serie che non possono competere con le megaproduzioni hollywoodiane) e si diverte a costruire le sue astronavi con i coperchi degli spremiagrumi come ha fatto facendoli volteggiare all’interno dell’architettura di Frank Lloyd Wright al Guggenheim di New York proprio mentre era in corso una personale di Matthew Barney.
Nonostante questa ostentazione del falso, tutto appare plausibile come se una logica altra avesse preso il sopravvento nella continua alterazione dei piani.
L’artista ci invita a giocare con le sue immagini ibridate, teriomorfe o zoomorfe, consentendoci di recuperare la nostra parte infantile più nascosta e spesso mortificata in una continua alterazione segnica dove non è sufficiente osservare, ma è necessario conoscere le regole per muovere le pedine sulla scacchiera della fantasia sapendo che solo attraverso il gioco è possibile scoprire i segreti della simulazione. “Game”, ha scritto Umberto Eco, “sono sistemi di regole, schemi di azione, matrici combinatorie di mosse possibili, mentre osservare le regole si traduce to play the game. C’è un oggetto astratto, il gioco come game e c’è una componente concreta, una performance che è il play” (8).
Del resto, Playing Sense è il titolo di un ciclo di opere proposte in quest’occasione dove, attraverso una serie di immagini fotografiche, si narra lo sbarco di alcuni alieni fiabeschi che “anziché portare messaggi cosmici si mettono a giocare uno strano gioco della loro tradizione e poi spariscono di nuovo”.
In fondo tutto ciò che Karin Andersen crea con i suoi personaggi ibridati (nell’ultimo video, Stranger, realizzato insieme a Christian Rainer il personaggio che ne deriva è la fusione tra il volto maschile e femminile dei due artisti mescolata a quella di un animaloide) è una sorta di abnorme simulazione in cui, come lei stessa mi spiega, “lo spettatore è invitato a sfumare con disinvoltura i confini tra realtà e gioco”.
Il lavoro di Karin Andersen, come emerge con chiarezza da questa pubblicazione, non è mai scevro di riferimenti al suo inconscio e per la prima volta svela i segni della sua infanzia che contengono già i germi del suo lavoro maturo con personaggi che sembrano aver atteso con pazienza il momento di ritornare in scena, magari dopo aver subito qualche lifting. Come quello strano bipede con la faccia da canconiglio che nel ciclo Imperfect Life s’intrufola in tutte le pagine del diario-fiaba, dove, spesso, camaleonticamente si mimetizza con le diverse situazioni e può prendere, a seconda dei casi, il colore della fermata della metropolitana o delle abitazioni. Ma è curioso notare che è la sua presenza altra a rivitalizzare il reale che prende energia dalla contaminazione. Insomma, se si dovesse definire con una sola parola il lavoro di Karin Andersen, potrebbe essere leggerezza nel senso che a questo termine ha dato Italo Calvino nelle sue celebri Lezioni americane. “In certi momenti”, scrive Calvino, “mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sull’immagine riflessa sullo scudo di bronzo” (9).
Karin Andersen, attraverso il suo sguardo laterale, alieno da convenzioni, sublimato e simulato, libera la fantasia creando un percorso non immediatamente definibile dove le figure sviluppano caratteristiche proprie, frutto di una continua trasmigrazione tra i diversi stati dell’essere, in base ad una logica sfumata e ludica. Per Karin Andersen, insomma, il post human, o meglio il post umano, è la parte di noi stessi con cui vogliamo riconciliarci indipendentemente dal luogo in cui ci trasporta con la sua navicella spaziale fatta di confetti colorati.
Note:
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Jeffrey Deitch, Post human, Libray of Congress, New York, 1992, p. 144.
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Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Boringhieri, Torino, 2002, p. 37.
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Roberto Marchesini, ibidem, p. 139.
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Karin Andersen e Roberto Marchesini, Animal Appeal. Uno studio sul teriomorfismo, Hybris, Bologna, 2003, p. 164.
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Lea Vergine, Il perduto dell’uomo o delle verità nascoste in Il Bello e le bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi dal mito all’immaginario scientifico (a cura di Lea Vergine e di Giorgio Verzotti), Skira, Milano, 2004, p. 21.
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Roberto Marchesini, Animal Appeal, in Karin Andersen. A trip to Lanimin Paloo (a cura di Fabiola Naldi), Studio d’Arte Cannaviello, Milano, 2002.
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Intervista tra Karin Andersen e Arianna Carosso in “Pig Magazine 40”, marzo 2006.
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Umberto Eco, introduzione a Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino, 2002, p. XVIII.
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Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2002, p. 8.